Nel 1987, ancora in preda alla sindrome del “tutto va bene”, avevo un fidanzato di nome Cris che inizialmente era comprensivo, gentile, molto lucido nel distinguere il bene e il male; per se stesso, per me e per il sociale, con la capacità di vedere il quadro della situazione anche su vasta scala. Entrava nel futuro con agghiacciante spontaneità.
Un giorno mi disse “Domani vado a farmi le analisi del sangue e se risulterò sieropositivo, sappi che la mia vita vita finisce qui”. E io “Caspita Cris, alle volte sai essere spietato! Facciamo come sempre abbiamo fatto. Dopo le analisi cercheremo la soluzione per la nostra vita. A me non cambia nulla che tu sia positivo o negativo…. ti amo per quello che sei dentro.”
Si gira di scatto verso di me con uno sguardo nuovo, sguardo che ha mantenuto per i successivi sei anni. Occhio deciso, rabbioso, terrorizzato, fulminante, muto, fermo, paralizzante e mi dice “Forse non hai capito. Io sono certo che risulterò sieropositivo ed è la tua vita che è in pericolo, non la mia perché io ho scelto. Non voglio soluzioni perché non ci sono soluzioni e io non faccio da cavia da laboratorio farmaceutico a nessuno! Non mi sottoporrò ad alcun accanimento terapeutico e non intendo per nessun motivo mettermi nelle mani dei medici la cui unica cosa che sanno fare è possedere la patente per uccidere la nostra dignità…”
Una parte di me capiva benissimo le sue motivazioni, ma il conflitto che nasceva dalla paura dell’abbandono era il grande mostro che bussava alle porte della mia coscienza.
(Tratto dal mio libro UNA VITA ROVESCIATA)